La famiglia, speranza e futuro
per la società italiana
Torino, 12-15 settembre 2013
Torino, 12-15 settembre 2013
Conclusioni
Prof. Luca Diotallevi
Vice Presidente del Comitato Scientifico e
Organizzatore delle Settimane Sociali
Domenica 15 settembre 2013
«In questi giorni vorremmo insieme provare ad ascoltare l’uomo e la
donna di oggi, senza pregiudizi o filtri ideologici, ma assecondando la
vocazione della Chiesa che ha come suo primo compito quello di ascoltare Dio e
inseparabilmente l’umanità, soprattutto le sue sofferenze, disagi e fatiche, le
sue paure. L’obiettivo non è di difendere una posizione, di ribadire un
principio, ma di portare a credenti e non credenti il contributo di
umanizzazione che la luce della fede suscita». Questo ci diceva il cardinale
Bagnasco all’inizio dei nostri lavori. Ed esattamente in questa direzione
abbiamo impegnato le nostre energie, le nostre competenze e le nostre
esperienze.
Credo che ancor prima di procedere ad un qualsiasi bilancio sia
necessario ringraziare il Signore per il grande dono che ci ha fatto
permettendoci uno scambio tanto ricco e tanto concreto, ispirato e proprio per
questo assolutamente realistico. Non dimentichiamo che tante Chiese, anche in
Europa, non possono avvalersi di altrettante ricchezze.
Nel riconoscere tra di noi una circolazione di così tanti talenti c’è
ben poco vanto, se è vero che è dall’uso che faremo dei talenti che ci sono
stati consegnati che saremo giudicati. Tanti talenti, tanta responsabilità. (Si potrebbe dire che il cattolicesimo
italiano, ed il laicato cattolico italiano, l’Ultimo Giorno rischierà molto.)
Ora cha abbiamo ascoltato una prima brevissima sintesi dei risultati dei
lavori delle aree tematiche è il momento per lo meno di cominciare a riflettere
su di essi.
Ciascuno degli elementi che ci sono stati esposti ha un significato
“pesante”. Eppure, tutti insieme esprimono ancora altro significato ed è su
questo che vorrei provare ad avviare – nulla di più – la comune ricerca. Mi
pare infatti che questo sia uno di quei casi nei quali, oltre a sapersi
soffermare sui dettagli, è altrettanto necessario elaborare anche uno sguardo
d’insieme; in casi come questi il tutto è davvero più grande e più “pesante”
della somma delle sue parti. Per evitare ripetizioni inutili vi chiedo solo di
tener presente quanto abbiamo appena ascoltato.
1. Una ricognizione dei problemi emersi e delle proposte
Il compito che ci siamo dato era quello di esercitare un discernimento
sulla condizione della famiglia nella nostra società e del suo rapporto al
proprio fondamento: l’amore di un uomo e di una donna, tutti interi, in
ciascuna fibra della loro personale umanità, libero e fedele, responsabile e
aperto alla vita.
Fare discernimento significa chiedersi, alla luce del Vangelo ed in
circostanze sempre molto precise, il senso e la differenza di ciò che c’è e di
ciò che realisticamente potrebbe esserci, e lasciar interrogare la propria
coscienza dall’eventuale differente valore morale che passa tra i poli di
questa alternativa.
Dunque, la prima domanda che dobbiamo porci potrebbe essere: di quale scala sono i risultati emersi da questo discernimento? Molti
sono i punti da cui potremmo partire per valutare l’esito dei lavori di questa
Settimana Sociale, ma forse è questo quello da cui oggi si deve partire.
Per rispondere è sufficiente ricordare solo alcuni dei nodi problematici
che i Presidenti delle aree tematiche ci hanno appena presentato. – La valenza
pubblica dell’impegno educativo. La contestazione radicale che va portata alla
pretesa dello Stato di farsi educatore. La crisi della educazione alla
laboriosità ed all’intraprendere. Il carattere ingiusto ed inefficiente della
pressione fiscale che oggi debbono sopportare i contribuenti italiani e le loro
famiglie. La onerosità e gli effetti addirittura sperequativi del modello di Welfare State tuttora imperante. La
fatica e la difficoltà di superare un muro di ignoranza e di ipocrisia, a volte
di sfruttamento, che separa le famiglie italiane e le famiglie di origine non italiana
che vivono nel nostro paese. La inadeguatezza crescente che le forme materiali
dello spazio urbano rivelano rispetto alle esigenze delle famiglie. Il dolore e
la inumanità di tante periferie violate del creato.
La lista è ben lungi dall’essere completa, ma quanto basta richiamato a
dirci con chiarezza quale è la scala
dei problemi che emergono se applichiamo il nostro discernimento al caso della
famiglia nella società italiana.
Essere consapevoli di una tale scala
– questa, direi, è la prima conclusione
– costituisce un punto di non ritorno del nostro cammino, ed insieme, è inutile
non riconoscerlo, ci costringere ad inserire nel dibattito pubblico italiano un
elemento scandalosamente scorretto: la
famiglia non è affare privato.
Se questa è la scala dei problemi che vengono scoperchiati dal
discernimento, è chiaro che il nesso tra famiglia e futuro, tra famiglia e
possibilità di un futuro non disperato, che nel titolo della 47ma Settimana
Sociale era semplicemente posto, ora appare come un nesso saldamente e – ripeto – scandalosamente
argomentabile.
Se poi pensiamo alle proposte pratiche che sono state sottoposte alla
comune considerazione (dal contrasto ai monopoli nella offerta scolastica alla
correzione di meccanismi fiscali, al congedo dal vecchio Welfare ed al conflitto con le sue “caste”) la medesima conclusione
si rafforza. La famiglia non è affare
privato e accettare le davvero le sfide che il discernimento ha dischiuso è
impossibile se non nella forma di azione pubblica collettiva. La buona
volontà individuale non basta, affidarsi esclusivamente a tecnici è una
ingenuità o una ipocrisia.
2. Una tesi …
Questo primo e cruciale risultato ci conduce ad una tesi. Non ad un dogma, per carità, ma ad una tesi, a
qualcosa che non si sottrae alla discussione pubblica, ma che anzi ad essa
viene offerto perché ritenuto in grado di reggere una prova sempre e comunque
salutare.
E la tesi, che formulerei riprendendo un passaggio della prolusione del
Cardinal Bagnasco potrebbe suonare così: l’architettura
della famiglia è una parte essenziale, ineliminabile, della architettura della civitas, e, più precisamente, di
una civitas in grado di interpretare
al meglio le opportunità e le sfide di una società globale, di una società
post-statuale.
Per usare le parole della Caritas
in veritate (n. 57) di Benedetto XVI la architettura della famiglia è una
componente decisiva di una civitas dalla
governance poliarchica, di una città
strutturata da una sussidiarietà tanto verticale quanto orizzontale.
La continuità con la Agenda Reggio
Calabria che il primo giorno veniva sottolineata da S.E. Mons. Miglio e
questa mattina ancora da Pasquali, non poteva trovare una corroborazione
maggiore. Se affermiamo che la famiglia non è un affare privato, è perché
insieme rifiutiamo ogni riduzione di “pubblico” a “statale”, è perché non
accettiamo di ridurre il diritto ad un sottoprodotto della legge dello Stato.
Anzi, possiamo e dobbiamo aggiungere, ed in questo ci aiutano anche
tante dense pagine della Centesimus annus,
che questa tesi vale per la società globale ancor più di quanto valeva per la
società dominata ed imprigionata dal primato della politica in forma di Stato.
Al tempo della globalizzazione la civitas
ha bisogno di un capitale di varietà, di un livello di specializzazione, e
di un sistema di limitazione reciproca tra poteri, di una sistema di garanzie
della eccedenza della persona umana che non può essere garantito senza il
concorso di una istituzione familiare pubblicamente riconosciuta e capace di
reggere il confronto con tutte le altre istituzioni pubbliche. Occorre perciò
aver chiaro che, per il suo legame con il bene comune, la famiglia non si
presta ad alcuna rivendicazione identitaria. E ciò vale anche, e forse
soprattutto, quando ci si trovasse, come cattolici, a difendere da soli le
ragioni ed i diritti della famiglia.
Insomma, ciò che emerge dal nostro discernimento ha un grado
zero di nostalgia.
Grado zero di nostalgia, e un ricco pacchetto di conseguenze che non
sarei in grado di sviluppare e che non avremmo il tempo di sviluppare ora, ma
alcune delle quali – appena tre –conviene subito cominciare ad identificare.
3. … ed alcune sue conseguenze
3.1. Il futuro della famiglia e le sfide che il suo discernimento
ha cominciato a far emergere, se guardati dal punto di vista ecclesiale, hanno
il potere di esercitare non una provocazione generica, ma una molto precisa.
Hanno il potere di provocare ad una riscoperta della irriducibile specificità
dell’apostolato proprio dei laici.
Del resto, tutto quanto appena emerso, può in primo luogo finire in
altro campo che in quello del «res
temporales gerendo et secundum Deo ordinando» (Lumen gentium, n.
31) che la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II attribuisce ai
laici come compito proprio? No, evidentemente. Il compito della pastorale, cui
pure i laici, purché “nel modo loro proprio” (Apostolicam actuositatem n. 20b) possono
e debbono partecipare, resta quello dell’esercizio di una autorità posta a
servizio (cfr. Lumen gentium, n. 18).
Di cosa questo significhi vorrei fare solo un esempio, utile ad evitare
illusioni e malintesi. Spesso nei lavori delle aree tematiche si è chiesto che
fine avesse fatto la Agenda di Reggio
Calabria, di cui in questi tre anni abbiamo compreso ancora di più il
valore e la attualità. Si tratta certo di una domanda che può essere posta ai
pastori. Tuttavia, se è vero quanto appena ricordato, essa è una domanda che
innanzitutto noi laici dobbiamo porre a noi stessi. “Cosa abbiamo fatto noi laici cattolici italiani, in questi tre anni nella
civitas e nella ecclesia, anni così difficili e talvolta drammatici?”.
Se accettiamo la dignità della nostra vocazione e del nostro apostolato non
possiamo sfuggire alla responsabilità esigente che deriva dall’una e
dall’altro. Solo poi, con dignità, rispetto e fermezza potremmo porre anche ai
pastori la stessa domanda, potremmo dire che certe folte facciamo davvero
fatica. (E magari lo potremo dire anche a
qualche laico troppo e malamente zelante, che non manca mai …)
Se assumiamo la prospettiva dell’apostolato nostro proprio, come laici
comprendiamo che nelle sfide che siamo riusciti ad individuare operando
discernimento sulla situazione della famiglia nella società italiana non è in
gioco qualcosa come una conseguenza o una applicazione
della nostra fede, ma è in gioco niente meno che la nostra stessa vita di fede
il suo spessore: ovvero, se siamo in grado di prestare al Signore che parla e
opera oggi in molti modi il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà
(cfr. Dei verbum, n. 5).
3.2. La tesi ha anche una seconda conseguenza. Se è vero che la
famiglia non è affare privato, ma pubblico, ciò significa che il caso della
famiglia ha molti profili, e sicuramente uno anche politico. Sarebbe ipocrita
tacerne.
Una parte importante delle sfide che nel discernimento sono state
individuate hanno un inequivocabile profilo politico. La loro partita si gioca
in campo politico. Le uniche azioni collettive attraverso cui possono essere
affrontate seriamente tali sfide sono di carattere politico. Ancora una volta,
cioè, si tratta di una materia sulla quale i pastori certamente possono e
debbono intervenire, e pubblicamente, ma che è rimessa primariamente alla
responsabilità dei laici. È inutile, o ipocrita, che i laici cattolici italiani
si pongano la questione della famiglia senza porsi anche con schiettezza la
questione della condizione in cui versa oggi il cattolicesimo politico in
Italia.
Chi aspettasse da questo luogo una indicazione sarebbe fuori strada.
Oggi, il compito delle Settimane Sociali è quello del sostegno e dello stimolo.
Da questo sostegno e da questo stimolo si può trarre qualcosa, ma certo il
grosso va compiuto altrove ed altrimenti.
Qui al massimo è possibile segnalare riduzioni e deformazioni. Due
esempi sono sufficienti.
Abbiamo sentito anche in questi giorni alcuni politici elogiare
grandemente il ruolo della famiglia come rimedio nella crisi e come riserva
nelle emergenze. Beh, con sincerità, va risposto che non basta. E che anzi una
prospettiva del genere può persino essere fuorviante.
Abbiamo ricevuto delle visite ed ascoltato le parole di autorevoli
responsabili pro tempore di
istituzioni politiche. A loro va tutto il nostro rispetto, ma nessun servile
ossequio. Li abbiamo sentiti esprimere delle intenzioni. Sicuramente ne
controlleremo l’esecuzione: ne abbiamo il dovere, il diritto e l’interesse come
cittadini e come contribuenti. Non abbiamo però sentito alcuna assunzione di
responsabilità rispetto a fallimenti, ritardi ed inadempienze (come quelle
indicate chiaramente nelle relazioni Venerdì mattina). Caso mai ce ne fosse la
necessità, questo ci ricorda che le riforme istituzionali da tanti decenni
negate ci lasciano, soprattutto con riferimento al livello nazionale, ancora
privi di quegli strumenti che ci consentano – come è nostro diritto – di
decidere la sostanza della competizione politica, di essere noi a decidere i
titolari dei poteri esecutivi. Come ricordavamo a Reggio Calabria, sono decenni
che cittadini italiani viene negato di avere un voto “pesante” almeno quanto
quello che hanno i cittadini delle altre grandi democrazie. Il debito pubblico
che ci affoga e che affoga le famiglie e le prospettive di ripresa economica,
non si è prodotto da solo, e a noi vengono negati gli strumenti per chiederne
conto politicamente ai responsabili. Abbiamo il diritto di scegliere chi
prendere le decisioni, e non solo di chi le ratifica.
È rispetto alla concretezza di questi problemi che vanno giudicate
allora anche le scelte dei tanti cattolici che fanno politica, e che anche di
recente hanno compiuto questa scelta. Quale
ne è stata la efficacia generale? Naturalmente nessuno discute l’esistenza
di un discreto raggio di legittimo pluralismo politico, negli orientamenti e
nelle forme di partecipazione, ma neppure le scelte legittime possono sfuggire
alla valutazione della loro reale efficacia in relazione al bene comune.
3.3. Vi è una terza conseguenza che credo sia possibile trarre
subito, anche con l’aiuto del riferimento ai contributi del professor
Blangiardo e del professor Zamagni. In modo molto efficace, loro ci hanno
mostrato che quelle in atto non sono oscillazioni contingenti, ma cambiamenti
di lunga portata. Cambiamenti cui è stata lasciata prendere una piega assai
pericolosa. Quello che può ancora esser fatto, prima che sia troppo tardi, richiede
una azione che sia costante e coerente, impegnativa e dai tempi non brevi.
Tutti sappiamo, del resto, di essere coinvolti in un passaggio epocale. Così
come sappiamo che, come Paese, giungiamo a questo passaggio con un ulteriore
carico di ritardi, errori, sprechi ed omissioni.
Se vogliamo almeno tentare di far qualcosa quello che dobbiamo mettere
nel conto è un impegno pesante e protratto nel tempo. È inutile non dirci e
non dire al paese che così stanno le cose. E se guardiamo ai nodi emersi dal discernimento
ce ne convinciamo ancora di più.
Insomma, se accettiamo la tesi che la architettura della famiglia è un
pezzo decisivo della architettura della civitas,
e che non ogni forma di città è compatibile con la architettura e la logica
della famiglia, siamo costretti ad accettare anche alcune conseguenze, e tra
queste senz’altro che una tale questione sfida in modo primario la nostra
responsabilità di credenti laici, che tale sfida ha molti
profili e certamente uno politico, e che se tali sfide voglio
essere affrontate in modo credibile va messo nel conto un impegno duro nella sostanza e
lungo nel tempo.
Ciò ci pone di fronte ad un ultimo
interrogativo: come?
4. Come?
Dovremo continuare a lavorare insieme per parecchio tempo, a livello
locale come nazionale e anche oltre, per poter dare una risposta seria alla
domanda sul come raccogliere davvero queste sfide. Tuttavia, nei lavori di
questi giorni, sono emersi degli spunti che vanno raccolti perché possono
metterci sulla strada giusta. Possono aiutare ad attrezzarci per questa sfida.
Le sfide che abbiamo intraviste innanzitutto vanno affrontate senza
nostalgia e con umiltà, perché nel modello di famiglia che abbiamo alle
spalle la architettura e la logica che ci sono state tratteggiate non
rifulgevano certo senza macchia e senza ombre. (Se qualche maschio avesse
dubbi, può interrogarsi sulle condizioni in cui si venivano a trovare le donne
e forse non di rado si trovano ancora.) Se sappiamo qualcosa è che la luce del
Vangelo e la forza della Grazia non hanno certo perso la capacità di rinnovare
e di purificare i concreti modi di esprimersi di quella cosa bellissima che è
l’amore fedele di un uomo e di una donna.
Insieme: pensiamo a quante volte nelle sintesi è risuonato il
termine alleanza o associazione. Insieme
nella Chiesa. Confortati delle grandi capacità di convergere senza
forzature che abbiamo sperimentato a Torino come a Reggio Calabria, forse oggi
possiamo comprendere meglio le ragioni della forza con cui il Vaticano II
raccomandava un esercizio associato dell’apostolato dei laici, non solo
“fuori”, ma anche “dentro” la Chiesa. E insieme
nella società, perché sappiamo che gli argomenti e le proposte con cui
sostanziamo la nostra idea di famiglia, di civitas
e di bene comune, possono essere largamente condivise. È accaduto al momento
della redazione della nostra Costituzione e potrebbe accadere ancora e per
questo vale la pena impegnarsi. Problemi come quelli che sono emersi dal nostro
discernimento non verrebbero neppure sfiorati da un impegno di carattere
individuale.
Infine dobbiamo mettendo nel conto che si tratterà di combattere
(emendandoci da ogni arroganza, ma non dal coraggio né dalla determinazione):
dovremo esser capaci spesso di quello che Sturzo chiamava l’agonismo della
libertà. Pensiamo solo a quanto ci sarà da battersi per affermare che la difesa
della dignità di ogni persona umana non deve conoscere eccezioni di alcun tipo
e insieme continuare ad affermare lo spirito e la lettera con cui la nostra
Costituzione riconosce i diritti ed i doveri del tutto speciali di quella
particolare formazione sociale che è la famiglia fondata sul matrimonio. Non
possiamo spaventarci né tacere di fronte a chi propone o minaccia di
trasformare la affermazione di un diritto in un reato di opinione.
“Come?”, dunque, entrare in
questa lunga incerta, ma potenzialmente feconda transizione. Senza nostalgia e
con umiltà, per quanto si può insieme e con l’agonismo della libertà.
Se riflettiamo sulle realtà che queste parole significano, se
consideriamo con franchezza le realtà che evocano, la loro bellezza, certo, ma
anche il loro costo, forse possiamo capire meglio perché all’inizio dell’omelia
della Messa di Giovedì ci veniva detto: l’Eucarestia è la cosa più importante.
Dove altro potremmo trovare la forza per il viaggio che ci attende e ci
reclama? Dove altro trovare opera e notizia della vittoria irreversibile, anche
se ancora non portata a termine, sui poteri di questo mondo? Dove altro
potremmo trovare, per usare le parole di Paolo VI, ciò che consente di sopravvivere
come credenti di questo momento storico segnati da quella grazia misteriosa
che, più che in passato, chiede a ogni battezzato, e non solo ad alcuni di
loro, di essere «Non molle e vile […], ma forte e
fedele» (Ecclesiam suam, n. 53).
Come sappiamo, per un viaggio come questo non si parte quando si è pronti,
ma si parte quando si è chiamati. A me pare che, se ascoltiamo bene il
frutto del discernimento di questi giorni intorno alle sulle gioie e alle
speranze, alle tristezze ed alle angosce degli uomini e delle donne di oggi, e
delle loro famiglie, – se prestiamo davvero attenzione – forse possiamo
ascoltare una chiamata.
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